Vita minima #85: Tiziano M.

negozio

In questa stagione, a una certa ora – l’ora in cui il pomeriggio si trasforma lentamente nella sera – si sposta da dietro il banco e si avvicina alla porta del suo negozio. Da dietro la vetrata, guarda le macchine passare lungo la strada – scie rapide di colore e fari accesi – e il parcheggio del piccolo supermercato al di là della carreggiata, popolato di ombre che reggono borse e sacchetti.

 

Non è entrato nessuno, nel suo negozio, nemmeno oggi. Lui lo sa che è perché quasi non ci vede più. E quando quasi non ci si vede più è difficile riparare degli orologi. Ha dovuto ammettere, davanti ad alcuni clienti, che non era in grado di completare i lavori che gli avevano affidato, e Dio solo sa quanto ci avesse provato. Non gli è difficile immaginare che quelle voci siano girate velocemente: è sempre così che succede, in un piccolo paese, lo sa bene.

 Ripensa a quando poteva infilarsi il piccolo monocolo da lavoro sull’occhio destro, vedere con ancora maggiore chiarezza di quanto non riuscisse a fare a occhio nudo quel minuscolo mondo fatto di meccanismi e ingranaggi.

 

A un certo punto l’insegna al neon sopra la porta d’entrata sfarfalla e s’accende. La luce rossa col suo cognome si riflette sul vetro, gli infastidisce gli occhi. Li strofina, li apre più che può, ma li sente bruciare. Per via del buio che si fa sempre più fitto e dell’alone rosso dell’insegna non distingue più le ombre che si muovono nel parcheggio. Le auto sono ombre nere che sfilano su un fondale nero.

Chiude la porta con un giro di chiave. Torna dietro al bancone. Cerca di non guardare più oltre il vetro della porta. Aspetta che arrivi l’orario di chiusura.

Vita minima #84: Silvietta R.

mani

 

“Dimmi come scrivi e ti dirò chi sei”.

“Con le mani”.

Vita minima #83: Diego U.

moto

In cuor suo sa bene che preferirebbe comprarsi una moto nuova, piuttosto che sposarsi.

Published in: on 10 luglio 2013 at 16:06  Lascia un commento  
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Vita minima #82: Federico F.

pendolare

Fa il pendolare da anni e ha calibrato l’orologio su quello presente sul sito ufficiale di Trenitalia. Ogni mattina, da lunedì a venerdì, sia all’andata che al ritorno, ogni volta che il treno si ferma a una fermata, controlla l’orologio, facendolo sgusciare da sotto il polsino della camicia con un movimento del braccio simile a una frustata. Controlla l’orologio e, se il treno non è in orario, bestemmia.

Ad alta voce.

L’intensità nel pronunciare la bestemmia è proporzionale al ritardo accumulato dal treno.

Lui non lo sa, ma molti altri pendolari abituati a viaggiare con lui non controllano nemmeno più l’orologio. Aspettano solo di sentirlo smadonnare dal posto che occupa di solito, in fondo al vagone e, se necessario, sbuffano di insofferenza.

 

Vita minima #81: Carmelo P.

paint

A volte fa dei pensieri strani sull’umanità. Oggi, per esempio, alle quattro del pomeriggio, si è chiesto: Chissà se c’è qualcuno, nel mondo, che in questo momento esatto sta usando Microsoft Paint.

Vita minima #80: Cesare D. L.

caccia

E’ a caccia, come ogni domenica mattina della stagione.
Gli piacciono, le primissime ore del mattino. Il mondo sembra immobile, ancora addormentato. Gli alberi emergono da una foschia leggera, quasi irreale; l’erba fruscia delicata sotto i suoi stivali; quando si china verso terra, lo sorprende la grazia e la perfezione con cui l’umidità si condensa in piccole gocce. A volte, gli sembra di muoversi come dentro a un sogno.

Non spara quasi più, quando viene a caccia. Qualche colpo, ogni tanto, che sbaglia apposta: e poi gli sembra di essere colpevole, di essere la causa di un rumore che gli appare troppo forte e troppo violento per quel microcosmo che sembra essere perfetto così.
Lascia che Barone abbai, questo sì – è un suono che c’entra, con tutto quello che vede intorno – lascia che corra lontano, procedendo a balzi e scodinzolando. Ogni tanto raccoglie un bastone e glielo lancia. Lo guarda correre, scartare di lato, la lingua fuori dalla bocca. Guarda gli occhi fedeli che chiedono una carezza, ogni volta che gli riporta il bastone.
Cerca di andarsene sempre prima che il resto del mondo (perchè pensa così, in quelle mattine: che esista lui, lì, in quella campagna immobile, e poi il resto del mondo) si svegli, prima che ci sia troppa luce e troppo rumore. Carica le sue cose in macchina – il fucile, gli stivali, un piccolo borsello pieno di cose che non ha usato e non userà mai – e prima di mettere in moto rimane un attimo seduto dentro l’abitacolo della macchina. Allora pensa a sua moglie: sarà già sveglia, a quest’ora. Fra poco inizierà a preparare il pranzo della domenica. Immagina la tavola apparecchiata, lui da un lato, lei dall’altra. Poche parole, come al solito. La televisione accesa: prima il telegiornale, poi uno di quei varietà soporiferi del pomeriggio. Le ore lente, ad attendere la telefonata dei figli. E’ che i figli non chiamano quasi mai. E quando chiamano, chiamano di fretta: sono sempre a casa di amici, da qualche parte in montagna o in macchina, di ritorno da qualche fiera o da qualche incontro. Ha provato a spiegarlo anche a sua moglie: non devono dare così tanta importanza a quelle telefonate. E nemmeno al fatto che si facciano vedere così poco, i loro figli: è così che funziona, al giorno d’oggi, ha provato a dirle e le dice di continuo. Ma sua moglie non sembra crderci, e non saprebbe dire se ci crede davvero anche lui, alla fine.

Accende il motore e fa un fischio, uno di quei fischi che ormai si vedono fare solo a persone di una certa età: due dita sotto la lingua e un richiamo così forte e secco e preciso che pare potersi sentire molto più lontano di dove realmente arriva. Barone è sempre in giro, a correre o a rincorrere qualcosa. Quando sente il fischio, come davanti a un muro invisibile, si ferma e scatta indietro verso di lui. Un fischio, e Barone arriva. Lui lo accarezza tra le orecchie, Barone socchiude gli occhi. Mentre gli strofina il pelo morbido della testa, lancia un’ultima occhiata agli alberi attorno: i rami che si stagliano netti contro il cielo chiaro, i contorni precisi delle cose, ora che la foschia è scomparsa del tutto. Non pensa più a sua moglie, e nemmeno ai suoi figli: dentro quell’atmosfera di sogno che sta per finire, si sente qualcuno, si sente vivo.

Vita minima #79: Mattia D.

rasta
Per tutta la serata ci ha provato con una ragazza abbronzata con i rasta. La ragazza abbronzata con i rasta – ovviamente – non gliela ha data.

Quella notte fa un sogno: ci sono lui e la ragazza abbronzata con i rasta in un grande letto dalle lenzuola candide. La ragazza abbronzata con i rasta si toglie la canottiera leggera con i colori della Jamaica: ha dei seni piccoli, da bambina quasi.
Quando si sfila le mutandine – un paio di mutandine a righe colorate – lui scopre che anche i peli della sua cosina sono riuniti in microscopiche treccine: piccoli rasta anche lì.
Piccoli rasta anche qui?, le chiede lui, nel sogno, sorpreso.
La ragazza abbronzata con i rasta annuisce.
Lui non sa se la cosa gli piace, ma ci affonda la faccia. Ed è allora, dentro il sogno, che scopre che la cosina della ragazza abbronzata con i rasta odora pure di incenso – quel profumo di incenso dolciastro che si sente nei negozi che vendono abbigliamento etnico. Non sa se la cosa gli piace.

Si sveglia di soprassalto con la gola secca e la lingua pesante.
Scalzo, cammina fino al frigorifero, in cucina. Prende una bottiglia d’acqua e ne beve in un solo sorso quasi metà. Ha qualcosa impigliato da qualche parte all’altezza del pomo d’adamo, lo sente.
Tossisce e si raschia la gola per qualche minuto, con versi d’animale, nel silenzio della cucina.

Vita minima #78: Nicola W.

sole

 

Il dottore disse che era una malattia degenerativa della vista.
“Mi sta dicendo che diventerò cieco?”,  chiese lui.
“Non si può dire con certezza. La gravità della patologia, il decorso, tutto quanto, varia molto da persona a persona”, rispose il primario.

Uscì dallo studio medico. Si sentiva stranamente calmo e incredibilmente lucido. Si guardò attorno: le strade, i palazzi, gli alberi mossi da un vento leggero, le scie di colore lasciate dalle macchine che si muovevano sulla provinciale.
Quanto ci vorrà perché non veda più queste cose?, si chiese. E poi, si chiese ancora, mi mancheranno davvero?
Ci pensò su per un po’. Si stupì di nuovo di sentirsi così stranamente calmo e incredibilmente lucido.
Arrivò alla conclusione che no, non gli sarebbe mancato niente di tutto quello che vedeva attorno. Mai fregato un cazzo, a lui, del sole, dei fiori, delle montagne e dei bei paesaggi. Una cosa sola gli dispiaceva: avere quasi quarant’anni e non aver fatto abbastanza soldi prima di diventare una specie di menomato.

Iniziò a pianificare le cose. Decise di scrivere un libro sulla sua malattia e sulla sua esperienza.
Aveva poco tempo. Nei primi due mesi la sua vista peggiorò repentinamente, poi sembrò assestarsi ai livelli di una forte miopia.
Il libro uscì otto mesi dopo e le vendite furono ottime. Lo invitarono a parecchie trasmissioni televisive. C’era sempre qualcuno, tra il pubblico, che piangeva quando raccontava la sua esperienza. Si dimostrò parecchio sensibile e la sua faccia ­ – con quegli occhiali neri che aveva preso a indossare ogni volta che usciva di casa – riusciva particolarmente bene in video.
Diventò opinionista fisso in un paio di talk show.
Poi decisero di fare un film tratto dal suo libro. A recitare la sua parte misero un attore giovane che era diventato famoso con una fiction. Fu un altro successo. Il suo conto in banca cresceva a dismisura.
Lasciò la moglie e si mise con l’attrice ventenne che l’aveva interpretata nel film.
Era tutto molto facile, adesso. Era come navigare sapendo esattamente dove andare. Aveva eliminato tutte le domande inutili. Tutto quello che doveva chiedersi era: voglio questa cosa? E: posso farci abbastanza soldi?

Vent’anni più tardi, come ogni mattina d’estate, mentre fa colazione sul terrazzo della sua casa a Capri, pensa alla sua vista, ancora ferma al livello di forte miopia dei due mesi successivi alla diagnosi del dottore. Certo, questo lo sa solo lui. Mica si fanno i soldi, con la miopia, per quanto forte possa essere.
Dalla cucina sente armeggiare Irina – la sua terza moglie ­, ventiquattro anni e un culetto a cui manca solo la parola – con il vassoio delle paste e del caffè.
Prima che lei lo raggiunga si toglie gli occhiali scuri  – ormai il suo marchio di fabbrica – e fissa il disco del sole nel cielo. Poi abbassa lo sguardo sull’orizzonte, chiude gli occhi e – mentre dietro le palpebre appaiono lampi ed esplosioni di luce – pensa per un attimo a come sarebbe la sua vita se fosse veramente cieco.

Vita minima #77: Edoardo S.

osteria

Ok, pensa, e se cominciassimo a cambiare anche solo una consonante nelle parole, non sarebbe già un grande passo avanti? Per esempio: invece di cartina tornasole non potrebbe essere cantina tornasole? Non sarebbe decisamente meglio?

Lo pensa e nel frattempo immagina una scena tipo questa: una schiera di impiegati e lavoratori tristi e curvi che escono dalle fabbriche e dagli uffici in una giornata uggiosa di pioggia. Camminano piano, lentamente, con la testa stretta tra le spalle e i baveri delle giacche rialzati. Sopra di loro, questo cielo che pare un blocco di ghisa, nuvole grigie che coprono ogni cosa. Fino a quando non trovano un’osteria lungo la strada. Una di quelle osterie vecchio stile, con l’insegna in legno che recita CANTINA. Guardando dentro, i tavoli e le panche in legno comunicano immediatamente quella sensazione di caldo e benessere che un po’ conosci perchè ti ricorda casa. Anche se, in realtà, lì dentro, dentro quella cantina, non ci sei mai entrato. E allora, questa schiera di impiegati e operai grigi e tristi apre la porta e si siede all’interno della cantina. Bevono bicchieri di rosso corposo – quel vino rosso che sembra venire da altri tempi – e magari mangiano anche qualcuna di quelle cose buonissime che con quel rosso vanno a braccetto, quelle cose che i locali fighetti oggi non s’osano più di servire: crostini con le acciughe, uova sode, cetriolini sottaceto. E man mano che bevono e mangiano le loro schiene si raddrizzano sempre un po’ di più, le facce grigie sembrano sempre un po’ meno grige – anzi, sorridono addirittura – fino a quando, dopo l’ennesimo bicchiere, non guardano fuori e la giornata è completamente cambiata: finita la pioggia, ora splende un bel sole caldo e primaverile.
“E pensare” dicono, “che quando siamo entrati qui sembrava pieno inverno”. E quello che non dicono, forse perchè un po’ e ne vergognano, è: sarà merito di questa cantina, di questo vino, di queste cose che abbiamo mangiato?

Cantina tornasole invece di cartina tornasole, pensa lui. Basta cambiare una sola consonante. Non suonerebbe tutto decisamente meglio?

Vita minima #76: Edoardo U.

bike
Mentre cammina per strada, vede un foglio attaccato alla serranda abbassata di un vecchio garage. Sul foglio, scritto a mano con una calligrafia che immagina essere quella di un vecchio, c’è un annuncio. L’annuncio dice: VENDO BICI GRAZIELLA ANNI 70 A 20 EURO IN BUONISSIME CONDIZIONI.
Si ferma un attimo e pensa che – tenendo presente che la bici è una Graziella con più di quarant’anni – quel in buonissime condizioni si debba riferire senz’ombra di dubbio alla bancanota da 20 euro.