Vita minima #80: Cesare D. L.

caccia

E’ a caccia, come ogni domenica mattina della stagione.
Gli piacciono, le primissime ore del mattino. Il mondo sembra immobile, ancora addormentato. Gli alberi emergono da una foschia leggera, quasi irreale; l’erba fruscia delicata sotto i suoi stivali; quando si china verso terra, lo sorprende la grazia e la perfezione con cui l’umidità si condensa in piccole gocce. A volte, gli sembra di muoversi come dentro a un sogno.

Non spara quasi più, quando viene a caccia. Qualche colpo, ogni tanto, che sbaglia apposta: e poi gli sembra di essere colpevole, di essere la causa di un rumore che gli appare troppo forte e troppo violento per quel microcosmo che sembra essere perfetto così.
Lascia che Barone abbai, questo sì – è un suono che c’entra, con tutto quello che vede intorno – lascia che corra lontano, procedendo a balzi e scodinzolando. Ogni tanto raccoglie un bastone e glielo lancia. Lo guarda correre, scartare di lato, la lingua fuori dalla bocca. Guarda gli occhi fedeli che chiedono una carezza, ogni volta che gli riporta il bastone.
Cerca di andarsene sempre prima che il resto del mondo (perchè pensa così, in quelle mattine: che esista lui, lì, in quella campagna immobile, e poi il resto del mondo) si svegli, prima che ci sia troppa luce e troppo rumore. Carica le sue cose in macchina – il fucile, gli stivali, un piccolo borsello pieno di cose che non ha usato e non userà mai – e prima di mettere in moto rimane un attimo seduto dentro l’abitacolo della macchina. Allora pensa a sua moglie: sarà già sveglia, a quest’ora. Fra poco inizierà a preparare il pranzo della domenica. Immagina la tavola apparecchiata, lui da un lato, lei dall’altra. Poche parole, come al solito. La televisione accesa: prima il telegiornale, poi uno di quei varietà soporiferi del pomeriggio. Le ore lente, ad attendere la telefonata dei figli. E’ che i figli non chiamano quasi mai. E quando chiamano, chiamano di fretta: sono sempre a casa di amici, da qualche parte in montagna o in macchina, di ritorno da qualche fiera o da qualche incontro. Ha provato a spiegarlo anche a sua moglie: non devono dare così tanta importanza a quelle telefonate. E nemmeno al fatto che si facciano vedere così poco, i loro figli: è così che funziona, al giorno d’oggi, ha provato a dirle e le dice di continuo. Ma sua moglie non sembra crderci, e non saprebbe dire se ci crede davvero anche lui, alla fine.

Accende il motore e fa un fischio, uno di quei fischi che ormai si vedono fare solo a persone di una certa età: due dita sotto la lingua e un richiamo così forte e secco e preciso che pare potersi sentire molto più lontano di dove realmente arriva. Barone è sempre in giro, a correre o a rincorrere qualcosa. Quando sente il fischio, come davanti a un muro invisibile, si ferma e scatta indietro verso di lui. Un fischio, e Barone arriva. Lui lo accarezza tra le orecchie, Barone socchiude gli occhi. Mentre gli strofina il pelo morbido della testa, lancia un’ultima occhiata agli alberi attorno: i rami che si stagliano netti contro il cielo chiaro, i contorni precisi delle cose, ora che la foschia è scomparsa del tutto. Non pensa più a sua moglie, e nemmeno ai suoi figli: dentro quell’atmosfera di sogno che sta per finire, si sente qualcuno, si sente vivo.